
Cittadinanza italiana e appartenenza
Dichiarazione CSER dei Missionari scalabriniani presenti in Europa e Africa
L’8 e 9 giugno prossimi, nel silenzio quasi totale dell’informazione pubblica e privata, i cittadini italiani sono chiamati ad esprimere il loro voto (SI o NO) a 5 quesiti referendari.
Quattro riguardano i diritti-doveri dei lavoratori e degli imprenditori e uno la proposta di ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza regolare in Italia affinché i cittadini stranieri possano far richiesta di diventare cittadino italiano.
In realtà, diversi partiti, soprattutto di governo, sostengono, più o meno apertamente, anche il diritto di non recarsi alle urne per far fallire il raggiungimento del quorum (50% più uno degli aventi diritto) e quindi la bocciatura a-priori di tutti i referendum: il tutto senza entrare nel merito dei quesiti. In tal modo, però, non si bocciano i quesiti (per far questo bisognerebbe recarsi ai seggi e scrivere NO sulle schede) ma si dice agli italiani che il loro voto non conta nulla, che se ne possono stare comodamente a casa perché a loro ci pensano, oggi, domani e sempre, i partiti…

Per quanti, però, non vogliono continuamente delegare ad altri la loro capacità di giudicare e decidere propongo di riflettere un po’ di più sul quesito riguardante i tempi per poter far richiesta della cittadinanza italiana, da parte di un cittadino straniero.
Alcuni politici, inclini ad usare sempre e solo la menzogna per raggiungere i loro “poco nobili” obiettivi, continuano a ripetere che la cittadinanza italiana è sacra e non può essere regalata a quanti la chiedono (forse delinquenti o persone indegne) inducendo a credere che barrando il SI sulla scheda referendaria si legittimi tale tesi.
In realtà, il referendum chiede semplicemente che invece di aspettare 10 anni (legge n.91 del 1992) lo straniero che desidera (e che ha tutti i requisiti richiesti dalla legge) possa presentare richiesta di diventare cittadino italiano dopo 5 anni di regolare residenza, così come era già previsto dalla legge n.153 del 13 giugno del 1912 del Regno d’Italia che all’articolo 4 recitava: «La cittadinanza italiana, comprendente il godimento dei diritti politici, può essere concessa per decreto reale, previo parere favorevole del Consiglio di Stato: … allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel Regno…».
Fermo restando che presentare la richiesta di cittadinanza non significa ottenerla immediatamente: passano sempre dai 2 ai 3 anni prima che il procedimento si concluda, e che quindi gli anni diventano 7 o 8 bisogna ricordare a coloro che agitano lo spauracchio della cittadinanza regalata che i requisiti richiesti allo straniero che vuole diventare italiano NON CAMBIANO con questo referendum. In effetti, il cittadino straniero deve sempre presentare la sua fedina penale sia del paese di origine, se espatriato dopo i 14 anni, che del paese di arrivo, deve dimostrare redditi sufficienti al mantenimento proprio e della propria famiglia, deve fornire tutti i documenti vidimati e asseverati presso le autorità italiane in grado di attestare le sue generalità e la composizione della sua famiglia e deve continuare ad avere una congrua conoscenza della lingua italiana.
Altro che cittadinanza regalata! Votando SI al referendum si vuole invece dare un segno di riconoscimento della presenza stabile ed integrata di circa 1 milione e 400 mila persone che, nate all’estero, hanno scelto l’Italia come loro “casa”, contribuendo con il loro lavoro all’economia del Paese e a contrastarne la decrescita demografica.
Si tratta di un primo, piccolo passo, ma non sufficiente, verso quella società italiana propria di un Paese inclusivo e capace di creare le adeguate condizioni di vita per quanti si sentono italiani e vorrebbero essere riconosciuti come tali. Purtroppo, questo referendum non tocca la questione dell’inadeguatezza dell’attuale normativa (legge n.91 del 1992) che non riconosce la cittadinanza e l’effettiva appartenenza alla società italiana di circa 1 milione di minori stranieri nati in Italia o arrivati da piccoli e residenti in Italia con un curriculum scolastico dell’obbligo compiuto in Italia.
Questi ragazzi e questi giovani parlano italiano, vivono la cultura del nostro paese e condividono sogni e aspirazioni con i loro coetanei italiani. Il mancato riconoscimento giuridico della loro identità alimenta frustrazioni e conflitti identitari, tanto che molti di loro sono spinti a dover scegliere tra l’appartenenza alla cultura d’origine della famiglia e a quella italiana, vivendo tensioni sia nella società “ospitante” che con i propri genitori. Tutto questo però non entra in gioco con questo referendum ma dovrà essere un altro passo da compiere verso quel Paese inclusivo che vogliamo.
Un’ultima annotazione riguarda anche l’approvazione in Senato del cosiddetto «decreto cittadinanza», il dl 36/25, in forza del quale la cittadinanza italiana non si trasmette più automaticamente ai nati all’estero – discendenti da italiani – in possesso di altra cittadinanza, ma solo a quanti hanno un genitore o un nonno italiano.
Quello che però fa riflettere di questa norma è la motivazione. Si sostiene infatti che la cittadinanza italiana non può essere regalata ai discendenti italiani “di sangue” che non hanno più legami linguistici né culturali con il nostro Paese da generazioni e che non lavorano, non pagano le tasse né contribuiscono direttamente alla crescita economica del Paese.
Tutto ciò è veramente surreale: agli stranieri che parlano italiano, lavorano e pagano le tasse in Italia si nega la cittadinanza perché non hanno “sangue” tricolore nelle vene, mentre ai discendenti italiani si nega la cittadinanza perché il loro sangue non è troppo tricolore visto che non parlano italiano, non lavorano e non pagano le tasse italiane…
Se qualcuno pensava che i politici avessero qualche problema di logica, qui trovano la conferma che dire tutto e il contrario di tutto è proprio l’essenza di certa politica nostrana e non solo. Ad ogni modo, l’8 e il 9 giugno, ANDIAMO A VOTARE TUTTI!!!
Roma, 20 maggio 2025
p. Lorenzo Prencipe, cs
